Cattive Notizie, di M. Loporcaro

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Cory Turner
view post Posted on 9/6/2010, 02:31     +1   -1




L'ho letto per l'università: è un libro davvero interessante che esamina il linguaggio del giornalismo italiano.

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Qui di seguito una recensione accurata

Recensione di Giovanni Ciappelli


Il libro parte da un disagio nei confronti del modo in cui viene prodotta e veicolata l’informazione da parte dei mass media italiani, disagio avvertito dall’autore soggettivamente (che pur italiano vive e lavora in Svizzera), ma anche oggettivamente da più parti in tutta Europa. E si propone quindi, per capirne i motivi, di analizzare le forme di questa informazione, utilizzando gli strumenti linguistici di cui l’autore è specialista (insegna Linguistica romanza all’Università di Zurigo). L’analisi formale condotta con tali strumenti, e attraverso il ricorso a concetti tratti da più discipline, porta a conclusioni che hanno una rilevanza politica: sia perché fanno capire che un certo tipo di costruzione della notizia da parte dei giornali o dei telegiornali corrisponde quanto meno oggettivamente a un tipo di progetto, che è di fatto connotato ideologicamente; sia perché il cittadino che ha a cuore il buon funzionamento della democrazia nel proprio paese può scoprire che è necessario in qualche modo smascherare la finta oggettività, o neutralità, o ineluttabilità dei modi di produzione dell’informazione, e attivarsi perché le strutture responsabili della crescita dell’istruzione (scuola e università) e della gestione dell’informazione modifichino il proprio modo di essere prima che sia troppo tardi.

All’origine di tutta l’analisi teorica di Loporcaro sta una premessa. Assunto che una notizia è, tecnicamente, il racconto di un avvenimento, è fondamentale la distinzione fra la notizia intesa come informazione, e la notizia intesa come racconto mitico. La prima si rivolge alle persone come cittadini, “aggiungendo un piccolo tassello alla loro conoscenza del mondo”, e quindi ha una funzione essenziale nella società civile: permette loro di prendere parte con maggior consapevolezza al processo decisionale. La seconda invece insiste sul racconto, vuole soprattutto fornire delle “storie”, il cui contenuto però non ha lo scopo di far crescere la consapevolezza, o la coscienza, o lo spirito critico di chi ascolta, ma assolve soprattutto alla funzione, mitica appunto, del raccontare come risposta all’esigenza ancestrale di ascoltare delle storie.

La prima concezione, dice Loporcaro, è tendenzialmente progressista e razionalistica. La seconda è tendenzialmente reazionaria e irrazionalistica.

Il legame con i Lumi della prima (presente anche nel titolo) è evidente. È durante l’Illuminismo che nasce il concetto di opinione pubblica, come crescita di una comunità di cittadini che si informano, discutono, si formano un’opinione autonoma da quella veicolata dai sovrani assoluti, e possono incidere anche sulla realtà politica. La seconda concezione sconfina invece nell’atteggiamento solo passivo del fruitore della notizia ricercato dalle società totalitarie.

Ora, nella società italiana di oggi le cose non sono necessariamente così nette. Però è un dato di fatto che, se diminuisce progressivamente lo spazio della notizia come informazione, l’opinione pubblica responsabile è a rischio. E questo è esattamente, dice Loporcaro, quanto avviene oggi con la trasformazione, veicolata dalla televisione, dell’informazione in quello che viene definito infotainment, misto di informazione e intrattenimento, dove il fruitore non riesce più a cogliere una differenza sostanziale fra l’uno e l’altro, perché tutto diventa indistinto. Per alcuni questo è inevitabile, ed è il prodotto dell’evoluzione tecnologica che ha portato alla diffusione oltre ogni limite della televisione. Ma per altri non è inevitabile, ed è invece alla fine pericoloso per la democrazia.

I due tipi di notizia (notizia-mito e notizia-informazione) sono articolati in testi con caratteristiche diverse. È qui che entra in campo l’analisi specifica di Loporcaro, che attraverso un gran numero di esempi argomenta in modo serissimo e circostanziato come la struttura linguistica e retorica di questi testi vada inequivocabilmente tutta, indipendentemente dalle intenzioni dichiarate dagli autori, nella direzione di un’informazione meno responsabile e meno democratica. Anzi, a sottolineare ciò, gli esempi sono tratti soprattutto dai telegiornali delle reti pubbliche, e da giornali spesso dichiaratamente progressisti, che però in questo senso vanno sostanzialmente a rimorchio delle tendenze dell’informazione televisiva nel modo di trattare e di confezionare la notizia.

In questo senso, anzi, esiste anche un ulteriore equivoco: a partire dagli anni Sessanta ci fu a sinistra chi sostenne che sia nella scuola, sia nell’informazione, la lingua italiana mediamente usata era una lingua vecchia, oscura, che aveva bisogno di essere svecchiata e semplificata. E si è lodato in questo senso il ruolo svolto dalla televisione nello svecchiare e semplificare, e nel diffondere l’abitudine all’uso di un italiano medio che ha potuto sostituire col tempo il maggioritario ricorso al dialetto. Tuttavia l’analisi di Loporcaro mostra che, ammesso che quegli obiettivi fossero corretti, la realtà del linguaggio dell’informazione televisiva e giornalistica di oggi è tale che sarebbe quanto meno necessario rivederli, dal momento che l’effetto raggiunto di semplificazione e svecchiamento non corrisponde per niente a un risultato positivo nell’ottica di una società civile rivolta alla crescita culturale del cittadino. Questa informazione non sta aiutando l’alfabetizzazione del cittadino e la crescita delle sue capacità critiche, sta producendo piuttosto il contrario: la fruizione passiva e acritica di notizie spesso prive di contenuto informativo.

Le notizie dei tg sono infatti costruite e porte secondo modalità che:

abituano lo spettatore a non distinguere fra la realtà del mondo di cui le notizie parlano, e la finzione dello spettacolo che rappresenta il contenuto del resto delle trasmissioni televisive;

vedono la rinuncia da parte del giornalista alle sue principali responsabilità professionali, fra le quali la distinzione tra fatti e opinioni, e l’assunzione di responsabilità rispetto a quanto viene enunciato;

sempre più appiattiscono il testo della notizia, specialmente politica, sul punto di vista del personaggio che vi sta al centro, rinunciando a qualsiasi commento critico autonomo. Il fatto è clamoroso nel caso di molte interviste ai politici, che diventano spesso altrettante occasioni di “interviste in ginocchio”, come è stato detto, o di semplice diffusione del punto di vista dell’intervistato.

Non è qui il caso di sottrarre terreno all’autore sul piano sia dell’argomentazione più dettagliata, sia dell’analisi specifica delle sue tesi. Può essere però interessante sviluppare un aspetto che egli tratta nelle conclusioni del suo libro, relativo alle cause storiche di questa particolare situazione.

Alcune di queste tendenze negative, ammette Loporcaro, sono generali, riguardano cioè anche altri paesi, oltre all’Italia. Ma in Italia esse si presentano prima e con maggior forza che altrove, come se il paese fosse più zelante, o più vulnerabile nella loro applicazione. Per quale motivo?

L’autore ricorda: il nostro è un paese “senza lumi”. Infatti il progetto illuministico di far crescere la discussione razionale e il giudizio critico passava anche nel Settecento attraverso l’acculturazione, e quindi l’alfabetizzazione e la diffusione della lettura. In Italia, come è noto, il progetto non si realizzò a livello di massa, e l’Illuminismo rimase un fenomeno di elite. D’altronde, l’Italia non aveva avuto neanche quel momento di moltiplicatore della cultura e dell’alfabetizzazione che in altri paesi europei aveva corrisposto alla Riforma protestante. La rivendicazione alla Chiesa cattolica del monopolio dell’interpretazione dei testi sacri e il tentativo riuscito di stabilire per secoli un pieno controllo sulle coscienze hanno impedito la diffusione a livello di massa di quelle conoscenze altrove stimolate dall’esigenza di accedere liberamente al testo religioso. Quindi, dice Loporcaro, nel nostro paese si è passati dalla Controriforma alla “rivoluzione consumistica” degli anni ’60-’70 quasi senza soluzione di continuità.

Sarebbe in questo senso giusto ricordare alcuni passaggi intermedi, i quali ugualmente congiurano nella stessa direzione. Non solo la Svezia alla fine del Settecento, ma anche la Germania della fine dell’Ottocento presentavano un livello di analfabetismo vicino allo zero. L’Italia unita del 1861 aveva invece ancora un tasso di analfabetismo del 78%. Il tasso diminuì per effetto degli sforzi della classe dirigente di fine Ottocento, fin quasi ad arrivare al 50% all’inizio del Novecento. La classe dirigente della Sinistra e della Destra storica si era posta quindi con una certa coerenza, in linea con le esigenze di gestione del nuovo stato, il problema della costituzione di una massa alfabetizzata e anche di un ceto medio sufficientemente consapevole. Però poi sulla effettiva formazione di una opinione pubblica critica nel resto del secolo hanno pesato negativamente gli effetti congiunti del più che ventennale periodo fascista (con la riforma in senso gerarchico della scuola e con l’informazione di regime), e poi del clima fortemente monocorde e di controllo dei media (giornali e televisione) di gran parte della cosiddetta prima Repubblica. Nel momento in cui poteva sembrare che la situazione potesse aprirsi relativamente, negli anni ’60-’70, si è quasi subito determinata dal punto di vista della proprietà o del controllo dei mezzi di informazione una situazione di relativo monopolio politico-mediatico che ha di nuovo avuto effetti ingessanti sulle possibilità di sviluppo di una vera opinione pubblica matura, paragonabile a quella presente in altri paesi. E l’attuale classe dirigente di orientamento democratico e progressista è rimasta finora su queste questioni colpevolmente assente, adottando spesso un atteggiamento di malinteso liberismo, che tende a giustificare l’esistente ritenendolo un prodotto non modificabile dello sviluppo tecnologico e delle tendenze dell’economia. L’invito a riprendere in considerazione la proposta di Popper di una “patente per la televisione”, proposto a fine libro, potrà ad alcuni sembrare eccessivo o utopistico. Ma il desolante quadro che emerge da questa lucida e non indulgente analisi dimostra che modifiche negli orientamenti pedagogici da un lato, e forme di intervento serio della gestione dell’etica professionale da parte dell’informazione, almeno pubblica, dall’altro, rappresentano un compito estremamente urgente per una società che voglia conservarsi democratica.
 
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